Sono stata cattiva... (atto finale)

Eravamo rimasti con Temistocle, l’incrocio fra l’Omino di Burro di Pinocchio e Romano Prodi, legato a gambe spalancate sulla mia poltrona ginecologica – nudo e tondo come un maialino. In caso ve lo stiate chiedendo… no, non era minidotato. Almeno in quello la sorte l’aveva risparmiato, ma poco importa.
Poco importa perché lui fa una risatina isterica (succede, se ci si trova in una situazione simile) e a me scatta qualcosa in testa, la sensazione di avere già sentito quel risolino. Avevo già in mente di lasciarlo un po’ da solo a sperimentare la sensazione di essere abbandonato in una posizione tanto vulnerabile, ma a quel punto ho preferito prendermi un minuto di pausa in più. Sposto quindi il carrello con tutti gli strumenti chirurgici dove lo possa ben vedere, e me ne torno in ufficio.

A questo punto dovete sapere che le stanze sono comunicanti e che per abitudine dettata dal mio amore per la sicurezza anche questa volta ho lasciato la porta aperta. Non ci potevamo vedere, ma sentirci non era un problema.
Immaginatemi allora nella mia poltrona a pensare “Ma no… non è possibile… sto prendendo un abbaglio…” e lui, dall’altra stanza, che comincia ad agitarsi. Quando si ha sott’occhio una collezione di strumenti d’acciaio pieni di punte, leve, pinze e rebbi fatti apposta per violare il corpo umano agitarsi è il minimo, naturalmente. Infatti, come previsto, dopo meno di tre minuti la paura prende il sopravvento (ricordiamoci che era stato lui a chiedere di sentirsi schiacciato dalla volontà di una donna) e inizia a lamentarsi. Poi a protestare, e in capo a cinque minuti a minacciare.

Per me queste reazioni fanno tutte parte del processo catartico: in parole povere lascio che le persone si scontrino con le loro barriere mentali per potersele poi lasciare alle spalle. Ma lui, Temistocle, se ne viene fuori con la stessa precisa frase che ero sicura al 100% di avergli sentito ripetere mille volte tanti anni fa. Mi spiace di non poterla riportare, perché sono certa che la usi ancora oggi tutte le mattine di fronte a tante persone. Ma fate conto che sia la classica “lei non sa chi sono io!”.
È tutto quel che mi serve. Torno nell’Ambulatorio, sogghigno, mi metto con calma i guanti di lattice, la mascherina… e gli rispondo, calmissima. “Sì che so chi sei tu. Sei il professor X, e insegni fisiologia alla scuola Y”. Lui strabuzza gli occhi. “Non ti stupire. So chi sei perché ti ho avuto anche io come insegnante. Ti avevo quasi dimenticato, ma mi hai fatto tornare in mente tutto ciò che mi hai fatto passare”. Lui diventa livido. “E ora sei nelle mie mani”.

Se adesso vi aspettate una storia di vendette cruente, tipo film di Hong Kong, devo deludervi. Nonostante tutto continuo ad avere degli obblighi morali nei confronti delle persone che si mettono nelle mie mani, oltre che naturalmente doveri di fronte alla legge. Tuttavia sono sicura che avete avuto anche voi un insegnante carogna con cui avete ancora un conto da pareggiare, pertanto riporterò una versione breve di ciò che è successo dopo.
Semplicemente, mi sono seduta di fronte a lui e gli ho parlato. Ma non come può parlare una ragazzina di 16 anni ricattata dai voti sul registro, bensì come un’adulta. Il fatto che fosse lì legato contava abbastanza poco: l’unica cosa importante era che fossimo finalmente sullo stesso piano umano.

“Caro professor X, devi sapere che sin dal tuo primo giorno di lavoro, ogni ora che passi in quell’istituto hai davanti una ventina di persone che ti odiano. Capiscilo bene: non è che ti temano, perché vedono precisamente cosa sei. Sei un vecchio bavoso, frustrato, senza alcun successo nella vita. Sei disgustoso a vederti, ridicolo, vergognoso per la tua calvizie, la tua pancia e i tuoi modi volgari. Tutti, da sempre, ti prendono per il culo per tutto ciò che dici e che sei, e l’unico motivo per cui non ti sputano in faccia quando apri bocca è che tu sei quello che firma i loro voti. Non rispettano te, ma il lasciapassare per uscire da quel lager mentale in cui sono costretti a passare tutte le mattine. Tu conti meno di un numero scritto su un foglio, mettitelo in testa”.
Penso che mi crederete se vi dico che Temistocle tremava come una foglia. “Ancora ai miei tempi sapevamo tutti benissimo che eri stato rifiutato persino da quella vecchia zitella che insegnava matematica. Oggi sicuramente altri sanno tutti i tuoi altri fallimenti, in tutto. E sai qual è la cosa di cui ti devi più vergognare? Che tu per tutti questi anni hai continuato a vivere solo per l’illusione di contare qualcosa in quelle cinque ore la mattina, ma tutto ciò che hai fatto è stato esporti allo schifo che provano per te i ragazzi, e soprattutto le ragazze. Noi abbiamo stretto i denti anche se non ci è mai fregato niente delle tue presunte lezioni, ti abbiamo preso in giro ripetendo a pappagallo quel che volevi sentire e abbiamo continuato a vivere le nostre vite; ad amarci e fare sesso mentre tu dovevi pagare le puttane per illuderti di ricevere un po’ d’affetto, a viaggiare mentre tu stavi bloccato qui, a crescere mentre tu sei rimasto sempre uguale. Noi siamo usciti da quella prigione di scuola, e intanto tu sei rimasto chiuso dentro e non ne uscirai mai”.

Una caratteristica di stare davanti a una poltrona ginecologica è che si vedono bene le contrazioni dell’ano di chi ci sta sdraiato sopra. E fidatevi: c’è mancato poco che quell’individuo se la facesse davvero addosso. “Tu sei venuto qui nascondendoti dietro a un soprannome,” ho continuato, “convinto di essere superiore alle donne, forse di essere superiore a tutti. Ma ecco la sorpresa, caro X: l’unica verità è che tu sei la merda più schifosa di tutte, quella che non si alzerà mai dalla fogna in cui si è gettata da sola”.
Temistocle era ormai in iperossigenazione, probabilmente convinto che gli stessi per aprire le budella con uno dei miei bisturi. E invece gli ho “solo” dato il colpo di grazia. Ho slacciato i legami che lo tenevano fermo, e con un gesto davvero perfetto gli ho gettato in faccia i suoi vestiti, che sono caduti a terra mentre il subumano cercava pateticamente di raccoglierli al volo. Poi, mentre quello si affannava a rimettersi almeno le mutande, gli ho semplicemente indicato l’uscita. Un dito puntato che spero proprio gli abbia mostrato la strada da prendere per il resto della sua vita.

Quando si è trovato sulla porta non sono riuscita a trattenermi dall’infierire un altro po’. “E a proposito,” ho aggiunto, “Quel che ho imparato della materia che insegni l’ho studiato tutto da sola, altrimenti a dare retta alla tua ignoranza chissà quanti pazienti avrei fatto finire nei guai. Vergognati!”
Lui si è infilato a fatica le scarpe, ed è scappato a gambe levate.
Sono stata cattiva, lo so. Ma se avete mai avuto un insegnante così so anche che adesso mi amate ancora di più.

Io, invece, in questo momento sto amando moltissimo due cose: un live dei Depeche Mode che mi hanno appena regalato e la fotografia del De Chirico che fa da sfondo del monitor su cui sto scrivendo. Ma di arte parliamo la prossima volta.

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